Santa Maria dell'Assunta
’ molto importante per la corretta analisi di un’opera, tener conto del contesto in cui è inserita. Nel nostro caso, la chiesa di Santa Maria Maggiore (chiesa Madre o Matrice) è situata sul punto più alto del comune molisano di Morrone del Sannio, piccolo paese posto sulla cima di una montagna (800 metri circa di altitudine) da cui si scruta gran parte del contado, parte dell’Abruzzo e del Mar Adriatico.
Morrone ha origini, senza dubbio, vetustissime: la sua fondazione è attribuita ai soldati di Annibale che, durante le guerre contro i Romani, posero il loro quartier generale proprio in queste zone. L’etimologia stessa del nome richiama l’antica Maronea sannitica. Ma persistono ancora delle perplessità sull’origine del nome. Alcuni sostengono che Morrone, conosciuta come Murono nel 1022, trae il suo nome dalla “morra”, ossia dalla pannocchia: i primi abitanti del posto, avendone trovata una molto grossa, avrebbero detto appunto essere un “morrone”, altri , invece, dicono che già molto prima i Romani avessero un ruolo nella storia e che “morr-“ stava ad indicare un mucchio di pietre, un grosso sasso, un monte, confermando così l’origine della città come roccaforte sannitica. L’ipotesi più probabile è la seconda, in quanto la sua veridicità è sostenuta anche dalle numerose reliquie della remota latinità, fra cui le fondamenta di una villa, citata anche negli scritti di Cicerone, in cui è stata ritrovata un’epigrafe in cui il liberto Caio Salvio Eutichus saluta Rectina per il suo ritorno dopo lo scampato pericolo nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Plinio il Giovane in una lettera inviata a Tacito racconta come lo zio, Plinio il Vecchio, comandante della flotta romana, partì da Capo Miseno con alcuni quadriremi per constatare i danni dell’eruzione e salvare Rectina, sua amica, la quale gli aveva fatto pervenire una richiesta d’aiuto essendo rimasta prigioniera della lava di Ercolano. Questa spedizione si concluse tragicamente per Plinio il Vecchio mentre Rectina la ritroviamo salva a Casalpiano come risulta dall’epigrafe “C. SALVIUS EUTYCUS LARIBUS CASANICIS OB REDITUM RECTINAE NOSTRAE”. Nello stesso sito sorgono due importanti costruzioni: le rovine di una chiesa del XII secolo e la chiesa di Santa Maria di Casalpiano, in parte ricostruita, su cui sono in corso degli studi.
La storia di Morrone e di quest’area molisana ha inizio quando, dopo la vittoria sul Trasimeno, Annibale, anziché marciare su Roma venne nel Sannio. A corto di forze militari e di viveri, cercò di sollevare i Sanniti contro l’Urbe ma non riuscì nel suo intento. Famosa la rivolta di Geronio, di cui oggi si cercano le tracce, che fu progressivamente abbandonata dopo il terremoto del 5 dicembre 1456 che la distrusse quasi totalmente. Questa zona, in cui ancor oggi si ritrovano reperti di una certa importanza storica, era ricca di grano, di vino e di altri prodotti. Numerose sono le testimonianze sulla prosperità di questa regione, ne parlano Plinio, Silvio Italico, Marziale e Dioscoride che paragonò i vini a quelli dell’Istria, che oltre agli aromi avevano doti terapeutiche: si racconta che Annibale e Giulio Cesare li usavano per rivitalizzare dalla fatica i loro cavalli.
Il vero sviluppo del paese ha inizio al declinare della dominazione longobarda, cioè fra i secoli X e XI. In questo periodo Morrone assume il titolo di “Civitas”, come si rileva dalla “Cronaca Cassinese”, cioè diventa città, in quanto il titolo costituiva una formale promozione dal subalterno “Castrum”, solito ad indicare i medi Comuni abitati e fortificati. Ancora oggi, le vestigia delle sue mura turrite e le fondamenta del castello dominante la valle del Biferno, ricordano la struttura della città primitiva, che, nel XVI secolo, era dotata di due porte: quella di S. Angelo all’ingresso dell’abitato e principale, e quella del Cornicchio ai piedi del Castello.
Se la dominazione sveva non lasciò importanti tracce di sé, non si può dire altrettanto di quella angioina: nel 1303, al tempo di Carlo II d’Angiò, la città aveva una reale importanza nei luoghi molisani, era dichiarata sede di fiera, stabilita per il 24 giugno di ogni anno. Questa dominazione fu un nodo importante nelle vicende feudali del paese, che ebbe, nel corso dei secoli, molti importanti Signori.
Morrone fu tra i numerosi feudi che Carlo I d’Angiò assegnò a Bartolomeo di Capua. Nel 1273, secondo l’Aldimari, ovvero nei primi anni del regno di Carlo II, questo feudo fu ceduto a Roberto de Cusenza, al quale successe il figlio Enrico. Pare che i de Cusenza fossero di origine italo-bizantina, e discendenti di un Rahone, celebre capitano ai tempi dell’imperatore Basilio. Il successivo acquirente fu, nel 1309, Andrea d’Isernia Seniore. Il feudo fu mantenuto dalla sua discendenza sino al 1330, quando Andrea d’Isernia Juniore permutò Morrone e Castiglione contro Longano. In forza di tale permuta Morrone divenne possedimento della famiglia di Luparia. Nel residuo corso del XIV secolo il territorio è forse da assegnare alla Signoria dei Cantelmo. All’inizio del XV secolo passò in dominio dei Santangelo, fino al 1424. Da tale data le vicende feudali di Morrone presentano una soluzione di continuità.
Dal 1443 questi territori furono assoggettati dalla monarchia aragonese prima e spagnola poi, che affidarono Morrone a numerosi Signori fra cui Ferrante Consalvo d’Aghilar, un “Uomo di valore ed esercitato lungamente nelle guerre di Granata” - come si esprime il Guicciardini – che fu inviato in Italia da Ferdinando il Cattolico. Questo periodo fu denso di tensioni e scontri che portarono al comando numerose personalità.
Queste terre furono acquistate il 22 aprile 1614 a Napoli, con atto del notaio Simone della Monica, da Antonio di Sangro Duca di Casacalenda, e rimasero alla sua discendenza fino alla costituzione del Regno d’Italia. Testimonianza degli ultimi sovrani è un masso, riutilizzato come pietra angolare ai piedi del Castello, raffigurante lo stemma della casata, ispirato a quello di un’illustre famiglia dell’epoca.
Morrone ha voluto, al proprio nome, l’aggiunta “del Sannio”, con autorizzazione per R.D. 22 gennaio 1863 (a seguito della delibera del 5 novembre 1862), allo scopo di differenziarsi dal Comune di Castelmorrone in provincia di Caserta.
Cenni storici
La prima costruzione risale all’anno 1200 circa, ma la configurazione attuale è dovuta ai lavori iniziati intorno al 1720. In quegli anni, un terremoto colpì il paese che si trovò costretto a varare un progetto di riqualificazione urbanistica, che proseguì fino agli anni del Fascismo (come testimoniano le date incise sulle chiavi di volta), che prevedeva l’innalzamento e l’abbellimento delle case, ecc. Da allora, gli ingressi delle abitazioni, per ragioni statiche e di prevenzione contro eventuali terremoti futuri, sono dotati di un particolare arco a sesto ribassato in seguito sostituito da quello a tutto sesto.
La costruzione della chiesa nelle fattezze attuali ha origini curiose: un importante nobile della zona sognò la Vergine Maria che gli disse di edificare una chiesa in suo nome nel punto in cui sarebbe caduta la neve. Era il mese d’agosto.(La storia ricorda le origini della basilica romana di Santa Maria Maggiore). La neve cadde sulla preesistente chiesa duecentesca.
Il nobile chiese udienza al Vescovo Tria, che decise di appoggiarlo nella costruzione della nuova chiesa. I lavori durarono dieci anni. Il 29.10.1730 la chiesa fu consacrata con il nome di Santa Maria ad Nives, per ricordare le particolari circostanze che portarono alla sua costruzione. A testimonianza di tale evento fu murata, all’interno della chiesa, nel primo pilastro a destra, una lapide con epigrafe: D. O. M. / Templum Hoc / Ejusque Altare / Nuper Funditus Constructum / Sanctae Mariae Majori / Dicatum / Iohannes Andreas Tria / Episcopus Larinen / Solemmi Pompa Et Ritu / E Sacro Reddidit Sacratissimum / Die XXIX. Octobris MDCCXXX. / Traslato Ejus Festo / Ad Diem XX. Octobris / Cum Sua Octava.
Analisi tecnica
Salendo la scalinata e percorrendo il ballatoio, si accede alla chiesa, suddivisa in tre navate d’ordine toscano, di cui quelle laterali risultano metà di quella maggiore. E’ presente un coro molto ampio, in cui è posto l’altare, lavorato a foggia d’urna con predella da Lorenzo Troccoli, con marmi scelti a Napoli, a similitudine dell’Altare delle Monache della Concezione di Monte Calvario, disegnato da Vaccaro. La parete di fondo è abbellita dalla presenza di un quadro raffigurante “l’Ultima Cena del Signore”, mentre la controfacciata è provvista di un organo ad otto registri con i suoi contrabbassi.
Le navate laterali sono dotate di tre cappelle ciascuna con i rispettivi altari: nella navata sinistra vi è l’Altare sotto il titolo di S. Modesto Protettore, Patrono principale di questa terra, l’Altare sotto il titolo di S. Giuseppe e l’Altare dedicato a S. Maria di Costantinopoli; nella navata opposta, vi è l’Altare sotto il titolo dell’Apostolo delle Indie S. Francesco Saverio, l’Altare sotto il titolo del Rosario e l’Altare sotto quello di S. Nicola di Bari.
La chiesa è anche provvista di un campanile di bella e solida costruzione, fabbricato con antichissime pietre quadre gravinate e presenta cinque campane, di cui quella maggiore è detta di S. Pardo. Il cimitero è posto vicino al campanile, dietro il coro della chiesa. Vi è anche uno Spedale per ricevere i pellegrini, posto nel luogo detto la Porta di S. Angelo, formato da quattro stanze, due superiori e due inferiori.
Si venerano varie Sante Reliquie: S. Mauro Abate – S. Giacomo Min. – S. Maria Maddalena –
S. Margherita V. e M. – S. Mercurio M. – S. Benedetto Abate – S. Agata V. e M. – S. Lazzaro Vesc. – S. Vincenzo M. – S. Placido M. – S. Caterina V. e M. – S. Celestino – S. Crisantio e Daria MM.
E’ presente un arredo composto da alcuni confessionali lignei, dall’antico pulpito interamente in noce, da numerose statue e vari quadri.
Conservazione e restauro
Si riscontrano problemi legati all’umidità, che ha creato macchie sulle pareti e intaccato il grande affresco, situato sulla parete di fondo e raffigurante una “Deposizione di Cristo”: presenta sollevamenti dell’intonaco e un avviata solfatazione, visibile nella formazione di tante piccole lacune. Le opere lignee presentano distacchi della pellicola pittorica, alcune fratture e tarlature, mentre quelle pittoriche, un imbrunimento della superficie e la formazione di crettature seguita, in alcuni casi, dalla caduta del tessuto pittorico.
La chiesa e le sue opere hanno subito un “restauro” nel 1987 (ricordato da una scritta sulla parete di fondo), che ha determinato la ridipintura dell’interno, e la conseguente eliminazione della volta “stellata”, la sostituzione della pavimentazione originale con lastre di granito e l’eliminazione della balaustra presbiteriale, con l’introduzione di un nuovo ambone e un nuovo altare, realizzati “in stile” con marmi policromi intarsiati.
Il problema conservativo maggiore è dovuto al terremoto che ha colpito la zona nel 2002: sono visibili numerose crepe e fratture, particolarmente significativa quella che interessa l’area del presbiterio. Era stato previsto un restauro con termine ipotizzato per il giugno 2006, ma fino ad ora è stata allestita solo l’impalcatura a sostegno della struttura e le opere sono state raggruppate in sacrestia. Si tratterebbe di un operazione impegnativa, data la presenza di alcuni cedimenti strutturali gravi e di un degrado più o meno avanzato delle opere, inoltre la caduta di parte dell’intonaco, ha evidenziato la presenza di alcune pitture sottostanti, ponendo il problema di un possibile “intervento di liberazione”.